Attivisti di Greenpeace sono entrati in azione ieri mattina ad Amsterdam davanti alla sede della banca ING, per chiedere all’istituto di ritirare il suo finanziamento al Dakota Access Pipeline (DAPL), un progetto di oleodotto che attraversa un’area sacra per i nativi indiani Sioux, mettendo a rischio le riserve idriche di una vasta zona del Nord degli Stati Uniti.
Venti attivisti hanno installato un tubo di grande portata, lungo venti metri, fin dentro all’ingresso della sede principale del gruppo ING per rappresentare chiaramente l’impatto dell’opera che si vorrebbe realizzare.
Il DAPL, bloccato dall’amministrazione Obama anche per l’elevato rischio di contaminazione delle acque potabili, ha ricevuto il definitivo via libera dall’amministrazione Trump nei giorni scorsi. L’oleodotto, lungo 1900 chilometri, è progettato per portare petrolio dal Dakota fino all’Illinois. Il suo costo si aggira su circa i 4 miliardi di dollari, mentre la sua portata sarebbe di 450 mila barili/giorno. Nel solo 2016 si sono registrati oltre 200 sversamenti dagli oleodotti nel territorio statunitense.
«Mentre ABN AMRO, che finanzia una delle aziende coinvolte nel progetto, ha dichiarato che ritirerà il suo prestito se il DAPL non avrà l’assenso delle popolazioni che abitano le aree interessate, banche come ING o Intesa Sanpaolo in Italia non hanno ancora espresso una linea chiara né preso impegni vincolanti», dichiara Andrea Boraschi, responsabile campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.
Nei giorni scorsi Greenpeace Italia ha scritto una lettera ufficiale ad Intesa Sanpaolo per chiedere se intende continuare a supportare economicamente il DAPL. Il gruppo bancario, in un comunicato ufficiale precedente al via libera definitivo di Trump, aveva dichiarato di “conferma(re) il suo impegno a seguire da vicino e con la massima attenzione i risvolti sociali e ambientali legati al finanziamento del Dakota Access Pipeline – in particolare il rispetto dei diritti umani – in coerenza con i principi espressi nel suo Codice Etico e con gli standard internazionali in campo sociale e ambientale a cui aderisce”; per questo Intesa Sanpaolo si è già “unita a un gruppo di istituzioni finanziarie che ha commissionato a un esperto indipendente specializzato in diritti umani un’analisi delle politiche e delle procedure adottate dai promotori del progetto in materia di sicurezza, diritti umani, coinvolgimento della comunità e patrimonio culturale”.
La protesta dei nativi americani è stata a più riprese contrastata con metodi brutali. È stato documentato l’uso di gas lacrimogeni, di proiettili di gomma, l’impiego di elicotteri e di potenti riflettori per illuminare a giorno gli accampamenti e impedire il sonno. E poi ancora episodi di detenzione di persone in cucce per cani e di maltrattamenti durante gli arresti, anche verso persone anziane, nonché l’uso di idranti che, con temperature ben al di sotto dello zero, hanno letteralmente congelato i manifestanti.
«Auspichiamo che gli approfondimenti che Intesa Sanpaolo sta svolgendo siano celeri e portino a decisioni chiare e rispettose dei nativi americani, dell’ambiente e del clima. L’amministrazione Trump ha notevolmente accelerato i tempi del progetto, e i finanziatori devono dire adesso da che parte stanno. Non c’è più tempo per tentennamenti e indecisioni. Investire in progetti che violano i diritti umani e danneggiano il clima equivale a stare dalla parte sbagliata della storia», conclude Boraschi.
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