Anche gli abiti che indossiamo sono responsabili dell’inquinamento da microplastica dei mari. Un problema che alcune case d’abbigliamento stanno affrontando da tempo.
Parlando di inquinamento da plastica nei mari (Marine Littering) è facile rimanere impressionati dai numeri. Sono 8 i milioni di plastica che finiscono nei nostri mari ogni anno. Come se ogni minuto, per 365 giorni, un camion della spazzatura riversasse tutto il suo contenuto in acqua. Senza sosta. Continuamente.
Tanto che, per effetto delle correnti degli oceani, sono nate vere e proprie isole di plastica. La più grande è la Great Pacific Garbage Patch, un’isola tra le Hawaii e la California composta per il 99,9% da frammenti di plastica galleggiante per un totale di circa 80 mila tonnellate. Una superficie grande tre volte la Francia.
Se pensate che vivere in Italia vi metta al riparo dal fare il bagno in una “zuppa di plastica” ricredetevi: nulla di più sbagliato. Le acque del Mediterraneo, per livelli di microplastiche (particelle di diametro e lunghezza inferiore ai 5 mm), sono “messe male” quanto quelle degli oceani. Lo rileva una ricerca effettuata da Greenpeace in collaborazione col Crn-Ismar e l’Università delle Marche (UNIVPM) che ha rilevato 2,2 microparticelle di plastica per metro cubo d’acqua nell’area delle Isole Tremiti e ben 3,56 a Portici (NA).
Numeri inquietanti ma che non dovrebbero stupire visto che gran parte di ciò che utilizziamo e indossiamo è fatto di materiali plastici. «Le microplastiche possono avere diverse origini: quelle appositamente create dall’industria, soprattutto dal settore cosmetico (pensiamo a dentifrici, creme e saponi) e quelle che nascono dalla frammentazione di detriti più grandi per effetto di attrito, abrasioni, vento, moto ondoso o raggi ultravioletti e che sono la stragrande maggioranza di ciò che ritroviamo negli oceani» afferma Giovanni Dotelli, Docente di Scienza e Tecnologia del Politecnico di Milano».
Non è un caso se l’inquinamento da microplastiche sia stato considerato dalle Nazioni Unite una delle sei emergenze mondiali dell’ambiente.
Microplastiche dai nostri vestiti
Ma non sono solo dentifrici coi microgranuli e rifiuti abbandonati nell’ambiente i responsabili della diffusione delle microplastiche nei nostri mari. Pensiamo anche agli abiti che oggi sono per buona parte composti da fibre sintetiche e microfibra (una combinazione di poliestere e poliammide) perché devono garantire quelle caratteristiche alle quali nessuno di noi vuole ormai più rinunciare: resistenza, colori brillanti, elasticità e, sempre più, convenienza economica. Ogni volta che li laviamo, questi vestiti rilasciano particelle di plastica talmente piccole da non essere intercettate dai filtri delle lavatrici finendo così nelle acque reflue e successivamente nei fiumi e nei mari.
Sherri Mason, una delle pioniere degli studi sulle microplastiche, ha condotto una ricerca sui pesci dei Grandi Laghi al confine tra Stati Uniti e Canada e ha scoperto che i loro corpi erano carichi di microfibre sintetiche. In media, si legge nella ricerca, un tessuto sintetico perde 1,7 grammi di microfibre ad ogni lavaggio. Negli anni la quantità raddoppia. Dalla lavatrice, il 40% di questi agenti inquinanti finisce in fiumi, laghi, oceani.
Le case produttrici di lavatrici e asciugatrici (anch’esse grandi generatrici di microplastiche) stanno lavorando a filtri più potenti ma ci sono ancora aspetti che non ne permettono l’utilizzo su ampia scala. «Il punto – conclude il professor Dotelli – è che oggi non siamo pronti a cambiare il filtro della lavatrice ogni settimana e tanto meno a rinunciare alla comodità a cui ci ha abituati la plastica. La soluzione è tornare a utilizzare questo materiale per lo scopo con cui era nato: un materiale leggero destinato a durare nel tempo grazie alla sua resistenza. L’usa e getta non era una delle opzioni immaginate».
Verità come queste e immagini che vanno dritte alla pancia delle persone sono stati il cuore della serata organizzata dallo store milanese Patagonia che ha voluto porre l’attenzione sulla questione delle microplastiche attraverso un dibattito e la successiva proiezione del documentario “The Smog of the Sea” di Ian Cheney e del cantante Jack Johnson.
«In quanto produttori di abbigliamento outdoor (per lo più composto da fibre sintetiche, ndr) ci sentiamo parte della causa del problema ed è per questo che stiamo lavorando a soluzioni alternative. Ad oggi siamo riusciti a portare al 30% la componente di fibre naturali utilizzata per i nostri capi d’abbigliamento. Questo però ancora non basta» afferma con convinzione Stefano Bassi, Responsabile Sostenibilità di Patagonia Milano. «Il nostro obiettivo è creare giacche, pantaloni e magliette sempre più sostenibili. Mentre la casa madre si impegna in questo, noi lavoriamo per sensibilizzare i cittadini sull’importanza del loro impegno quotidiano. Anche quando sembra inutile se paragonato all’entità del problema. In negozio stiamo proponendo ai nostri clienti la washing bag che non è una soluzione, ma può essere uno strumento per tamponare il problema fino alla sua risoluzione».
Molte sono le iniziative di taglio ambientale organizzate dallo store Patagonia di Milano che è ormai diventato punto di riferimento per gli ambientalisti. Il negozio è infatti un luogo dove ascoltare e interagire con associazioni, comitati, ricercatori e studiosi dell’ambiente. Federica Guerrini, ad esempio, giovane laureata in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio al Politecnico di Milano, ha raccontato proprio qui la sua ricerca sulle plastiche nel Mediterraneo. Utilizzando foto satellitari, nozioni di chimica, biologia e etologia marina l’ingegner Guerrini ha individuato le aree con una maggior presenza di cetacei marini e quelle con un’alta contrazione di plastica. Dove le due aree si incontrano è necessario intervenire tempestivamente affinché si evitino nuovi casi di capodogli e balene uccisi da chili di plastica nei loro stomaci.
Il prossimo appuntamento nello store milanese è previsto per venerdì 4 maggio con una serata dedicata alla proiezione di Blue Heart, film volto a documentare i più di 3.000 progetti di dighe e derivazioni in fase di realizzazione o progettazione nei Balcani, sugli ultimi fiumi incontaminati d’Europa.