Tra un mese gli italiani saranno chiamati a votare per il Referendum sulle Trivelle, anche detto referendum “No-Triv”: una consultazione per decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio per i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa italiana.

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È bene precisare che il referendum non riguarda il divieto di effettuare nuove trivellazioni, che sono già vietate entro le 12 miglia e continueranno a essere permesse oltre questo limite anche in caso di vittoria dei sì, ma ad impedire l’ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti una volta scadute le concessioni.
L’iter di questo referendum è stato infatti piuttosto difficoltoso e ostacolato e gran parte dei requisiti sono andati persi lungo le varie vicissitudini. Vale la pena ripercorrerne le tappe salienti come riportate anche da L’Internazionale.

Nel settembre del 2015 Possibile, il movimento fondato da Giuseppe Civati, aveva promosso otto referendum, ma non era riuscito a raccogliere le 500mila firme necessarie (secondo l’articolo 75 della costituzione) per chiedere un referendum popolare. Poche settimane dopo dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) hanno promosso sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. L’Abruzzo si è poi ritirato dalla lista dei promotori.
A dicembre del 2o15 il governo ha proposto delle modifiche alla legge di stabilità sugli stessi temi affrontati dai quesiti referendari, per questo la cassazione ha riesaminato i quesiti e l’8 gennaio ne ha dichiarato ammissibile solo uno, perché gli altri sette sarebbero stati recepiti dalla legge di stabilità.

A questo punto sei regioni (Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania) hanno deciso di presentare un conflitto di attribuzione alla corte costituzionale riguardo a due referendum, tra quelli dichiarati decaduti dalla cassazione. I consigli regionali contestano al governo di aver legiferato su una materia che è di competenza delle regioni in base all’articolo 117 della costituzione, modificato dalla riforma costituzionale del 2001. Il 9 marzo la consulta valuterà l’ammissibilità del conflitto di attribuzione. Se il conflitto sarà valutato ammissibile, allora la corte entrerà nel merito.

Un referendum che quindi arriva molto snaturato rispetto al suo contenuto iniziale e non a caso è stato definito dai suoi promotori stessi “un atto politico” volto a dare un segnale contrario all’utilizzo delle fonti di energia fossile, come il gas e il petrolio estratti dalle piattaforme offshore.

Cosa succede in caso di vittoria dei sì
Il referendum non modifica la possibilità di compiere nuove trivellazioni oltre le 12 miglia e nemmeno la possibilità di cercare e sfruttare nuovi giacimenti sulla terraferma. Inoltre compiere nuove trivellazioni entro le 12 miglia è già vietato dalla legge. Una vittoria dei sì al referendum impedirà l’ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti una volta scadute le concessioni. Un esempio per capire meglio.
Il giacimento di Porto Garibaldi Agostino, che si trova a largo di Cervia, in Romagna, è in concessione all’ENI ed è sfruttato da sette piattaforme di estrazione. La concessione risale al 1970 ed è stata rinnovata per dieci anni nel 2000 e per cinque nel 2010. In caso di vittoria del sì, l’ENI potrà ottenere una seconda e ultima proroga per altri cinque: dopo sarà costretta ad abbandonare il giacimento, anche se nei pozzi si trovasse ancora del gas.

Cosa succede in caso di vittoria dei no
In caso di vittoria del no o di non raggiungimento del quorum previsto (50% degli aventi diritto) lascerà la situazione inalterata e queste prevedrà che tutti gli impianti finora attivi entro 12 miglia marine dalla costa potranno continuare la loro attività fino ad esaurimento del giacimento. Alla scadenza della concessione dovrà comunque essere presentata una richiesta di prolungamento dell’attività e dovranno essere ottenuta un’autorizzazione in base alla valutazione di impatto ambientale.