di Davide Michielin, National Geographic
A un anno dalla cerimonia di assegnazione del premio Goldman, massimo riconoscimento internazionale per l’attivismo ambientale, i timori di Berta Cáceres sulla propria incolumità si sono infine tramutati in realtà. Non le minacce di stupro e violenza, non la possibilità di ritorsione nei confronti dei figli ma solo l’omicidio ha potuto mettere a tacere la leader dei lenca, un’etnia indigena oggetto di oppressione culturale e politica da parte del governo honduregno.
Coordinatrice del Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (COPINH), Cáceres era un’instancabile attivista, implacabile nel denunciare i reati ambientali perpetrati dalle multinazionali operanti nel Paese che troppo spesso agiscono con il benestare del governo.
Tra le sue battaglie vi erano l’abbattimento illegale delle foreste, l’esproprio dei terreni per le colture bioenergetiche e più recentemente la campagna contro Agua Zarca, uno dei progetti idraulici più imponenti dell’intero centroamerica. La costruzione di quattro dighe sul fiume Gualcarque, approvata senza il parere della popolazione locale, avrebbe infatti privato i lenca della principale fonte di irrigazione e acqua potabile.
La vittoriosa opposizione del COPINH al progetto Agua Zarca – nel quale era coinvolta anche la cinese Sinohydro, leader mondiale nella costruzione di dighe – era già costata la vita ad alcuni attivisti, tra i quali l’influente Tomás García, assassinato nel 2013, e il quattordicenne Maykol Rodríguez, torturato a morte nell’ottobre del 2014. Secondo un rapporto della ONG Global Witness, tra il 2010 e il 2014 sono stati 101 gli attivisti uccisi nel paese, ritenuto ad oggi il più pericoloso al mondo per gli ambientalisti.
La recente escalation di violenza in Honduras non è tuttavia un caso isolato. L’eliminazione degli attivisti che difendono la propria terra dallo sfruttamento delle industrie del legname è un fenomeno tristemente radicato in Amazzonia. In questa regione la questione ambientale è spesso associata al mancato riconoscimento dei diritti delle popolazioni native: in Perù le vittime di omicidi a sfondo ambientale appartengono per oltre il 70% a comunità indigene.
La debolezza del governo centrale ha infatti consegnato le regioni più interne del paese alla mercé dei cartelli criminali. Nonostante le minacce di morte e l’assenza di protezione da parte delle istituzioni, Edwin Chota non aveva mai rinunciato a combattere i taglialegna abusivi e i narcotrafficanti che utilizzavano le vie fluviali per trasportare la cocaina dal Perù al Brasile. Figura carismatica e leader della popolosa etnia asheninka, Chota era laureato in legge, che impugnava per sequestrare le partite di legname illegale. La minaccia a un business che, secondo la Banca Mondiale, rappresentava nel 2012 circa l’80% delle esportazioni di legname del paese, era costata la vita all’attivista e a tre dei suoi compagni, giustiziati in un’imboscata nel settembre del 2014.
Il paese con il maggior numero di omicidi è però il Brasile: tra il 2002 e il 2014 sono state ben 458 le vittime, quasi la metà degli ambientalisti uccisi nel mondo. Numeri impressionanti che, tuttavia, potrebbero essere significativamente sottostimati: secondo un rapporto della Commissione Pastorale della Terra (CPT) di Goiânia, negli ultimi venticinque anni sarebbero oltre 1.500 quelle che vengono definite “vittime della deforestazione”. Il simbolo di questo martirio ambientale è il sindacalista Chico Mendes, assassinato nel dicembre del 1988.
A capo dei raccoglitori di caucciù (seringueiros) dello stato dell’Acre, nella seconda metà degli anni ’70 Mendes si fece promotore di un utilizzo sostenibile e comunitario del patrimonio forestale, gestito direttamente dai lavoratori mediante metodi assembleari. L’adesione di tutte le componenti del tessuto sociale provocarono la repressione violenta dei possidenti terrieri che vedevano i propri interessi minacciati. Arrestato e torturato, Mendes proseguì comunque la sua campagna contro i latifondisti e le multinazionali del legname, venendo riconosciuto nel 1987 come uno dei più influenti difensori della natura dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP). L’anno seguente il sindacalista fu ucciso nella propria casa mentre si trovava sotto la doccia, colpito dal figlio di un allevatore di bestiame che non aveva accettato di buon grado l’istituzione di una riserva naturale nei suoi terreni.
Nonostante l’indignazione planetaria per la sorte del sindacalista, oggi come allora nei paesi in via di sviluppo la facilità nel corrompere politici e poliziotti locali permette ai responsabili di rimanere quasi sempre impuniti. A due anni dalla condanna a scontare 19 anni di carcere, nel 1992 la corte d’appello federale annullò infatti la condanna di Darly Alves, il mandante dell’omicidio di Mendes.
Secondo un altro rapporto di Global Witness, dei 908 omicidi accertati tra il 2002 e il 2013 in 35 paesi in via di sviluppo, solamente in 10 casi l’assassino è stato condannato. Nel rapporto in questione, gli analisti pongono fin dal titolo l’unica domanda a cui non hanno ancora saputo trovare risposta: How many more?.
In quanti ancora dovranno morire?
Fonte: National Geographic