Mimmo Nardozza è l’autore del documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delle trivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata. Lui la situazione lucana la conosce bene, sa che fino ad oggi il denaro ha comprato il sistema. E ce lo ha raccontato nel numero di BioEcoGeo di Dicembre che rimane, inchieste e arresti a parte, estremamente attuale.
Definita da Fatih Birol, direttore dell’Agenzia Internazionale Energia, come la “terza riserva petrolifera più importante d’Europa”, la Val d’Agri produce l’80% del petrolio italiano. La Houston della regione è Viggiano, oggi capitale del petrolio italiano.
Nel suo comune hanno trovato spazio 20 dei 27 pozzi della Val d’Agri, nonché il Centro oli dove il petrolio viene ripulito e immesso negli oleodotti e spedito a Taranto.
Ogni giorno 80mila barili di petrolio attraversano le tubature per raggiungere le raffinerie pugliesi. Dimensioni contenute se paragonate ai colossi texani o ai supergiant mediorientali. Eppure la piccola regione non è esente da impatti sull’ambiente (possibile inquinamento da azoto e fosforo) e sulla salute (sversamenti, di particolato nei terreni). Eppure la protesta è più spenta che in altre zone come la Sicilia e le Marche.
Qua il petrolio regna sovrano. Eni, ma anche Shell e Total.
«Dopo le mobilitazioni di Scansano per il petrolio abbiamo visto una partecipazione minore alle proteste, anche da parte degli ambientalisti,», spiega Mimmo Nardozza, autore del documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delle trivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata. Lui la situazione lucana la conosce bene. Sa che fino ad oggi il denaro ha comprato il sistema. Con oltre 140 milioni di euro di entrate, il 6% delle entrate regionali, le royalties costituiscono un mezzo potente per convincere l’opinione pubblica e l’amministrazione regionale che il petrolio è vita. Con le royalties pagano anche i sussidi alla sanità e al diritto al reddito.
Eppure i ritorni sull’occupazione sono stati ridotti. Le cifre fornite dall’Università di Salerno parlano di 1.500 persone all’ENI. Sebbene i lavoratori impiagati dal cane a sei zampe siano solo 300 addetti, tutto il resto è indotto. Eni dice 3.000 persone, includendo trasportatori e operatori che vengono da fuori. «L’occupazione reale è bassissima, non vale il corrispettivo del danno ambientale», continua Nardozza.
Forse la soluzione potrebbe arrivare dai bassi prezzi del petrolio che in questi mesi hanno contribuito al taglio della produzione. Ma c’è da scommettere che con il petrolio di nuovo sopra i 60 dollari le trivelle torneranno a farsi sentire.