L’Iter per la costruzione del Deposito Nazionale di stoccaggio per i nostri rifiuti radioattivi è faticosamente giunto alla fase della consultazione pubblica, durante la quale Regioni, Enti locali e tutti i soggetti portatori di interesse possono formulare osservazioni e proposte tecniche.
Nel complesso, l’intera operazione si mostra molto laboriosa ma anche abbastanza pubblica, il che la distanzia anni luce dagli eventi di quel drammatico inverno del 2004.
In quel periodo il Consiglio dei ministri (riunito in notturna) scelse tramite decreto Scanzano Jonico in qualità di sito ottimale per la costruzione del deposito, scatenando così la reazione dei lucani che occuparono strade e autostrade bloccando il traffico e quindi l’intero progetto. L’Italia non vedeva da tempo una forma di opposizione così partecipata e per molto non l’avrebbe più vista. Per i commentatori quella data segnò la nascita del fenomeno “Nimby” (cioè “Non nel mio giardino”) nel nostro Paese, ma fu piuttosto una resistenza collettiva a una scelta che sembrò irresponsabile e dettata dalla fretta.
Oggi la Basilicata è ancora tra le regioni papabili ma, paradossalmente, le trivelle in azione su gran parte del territorio più i nuovi progetti di scavo che con la legge Sblocca Italia hanno trovato facilitazioni autorizzative, potrebbero essere ostative per l’individuazione di un’area disponibile.

Deposito nazionaleUtilità del deposito
Sulla necessità di dare protezione a materiali pericolosi sotto vari profili (da quello economico a quello sanitario e della security) concordano tutti.
Attualmente i rifiuti sono dispersi in 24 depositi sul territorio italiano e all’estero, dove ci stanno custodendo 15 mila metri cubi di scorie ad altissima radioattività ricondizionate. Le scorie riprocessate in Francia e in Inghilterra sarebbero dovute rientrare in Italia proprio quest’anno, ma attualmente non sapremmo dove metterle. Quindi rimangono fuori dai nostri confini, con un costo che finisce direttamente nelle nostre bollette elettriche.
Anche per quanto riguarda la sicurezza, l’urgenza non cambia. L’anno scorso alla Camera, durante un’audizione, i dirigenti Ispra hanno raccontato di rifiuti radioattivi che «continuano a essere immagazzinati senza un adeguato processo di condizionamento presso strutture non idonee, in particolare dal punto di vista della localizzazione, a una gestione di lungo termine. Va evidenziato che in tale contesto sono emerse negli anni alcune situazioni di particolare criticità».
Sull’utilità del deposito quindi non ci sono dubbi. Piuttosto, bisognerà tenere alta l’attenzione su tutto il procedimento realizzativo (l’investimento previsto dalla Sogin è di un miliardo e mezzo di Euro), che spesso si connota di subappalti: nell’inchiesta Expo di maggio 2014 la procura di Milano ha evidenziato un giro di soldi che si aggirerebbe intorno ai subappalti per la discarica radioattiva a Saluggia. Un’operazione su cui la stessa Sogin ha preso le distanze, e i nuovi vertici, proprio a ottobre 2013, avevano avviato un’indagine interna che ha portato, qualche settimana prima degli avvisi di garanzia, a un esposto in procura e sette lettere di contestazione per altrettanti funzionari.

Ma cosa dovrebbe contenere il Deposito Nazionale?
Il Deposito Nazionale sarà la sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività: il 60% è prodotto dallo smantellamento delle vecchie centrali, il 40% dalle attività giornaliere di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Una quantità destinata a crescere.
Abbiamo chiuso le centrali nucleari negli anni Ottanta, ma continuiamo a produrre scorie nucleari: come ad esempio i risultati diagnostici di certi esami clinici, o anche in alcuni vecchi  rilevatori di fumo all’americio. Un lungo elenco di scorie radioattive che si accumulano, e che ora devono necessariamente essere protette.