L’impressione che ne deriva ad un primo sguardo, ascoltando le voci di chi ne ha sentito parlare, è quella di una installazione di Land Art. Ma è solo raggiungendo il luogo fisico, un appezzamento di terra nei pressi di Felline, non lontano da Racale, che la realtà ha modo di manifestarsi.
Essa è decisamente altra rispetto ad un presunto esperimento di estetica del territorio. La poetica è quella della lotta e della testimonianza. Il visitatore, non a caso, è accolto dai resti, intenzionalmente non rimossi, di un olivo monumentale sibillinamente arso in assenza del proprietario dei 4 acri.
Lui è Mino Specolizzi, un po’ filosofo, un po’ antropologo autodidatta, certamente un’anima salentina come poche ne sono sopravvissute. L’ideatore di un progetto visionario che ha ridato presenza ad una memoria millenaria.
La sua creatura è L’Orto dei Tu’rat. Un luogo che restituisce vita alla pietra, la quale, reagendo con gratitudine, produce acqua.
I Tu’rat altro non sono infatti che muretti a secco orientati in direzione Sud-Ovest, quasi delle reti a raccogliere i venti di Libeccio e di Scirocco che qui soffiano copiosi, intercettandone l’umidità e funzionando come condensatori di minute goccioline che nel ciclo giorno-notte si depositano sul suolo. Il concetto è talmente semplice da risuonare quasi disarmante.
E per comprenderlo basti pensare ad una pietra in un assolato pomeriggio estivo: tutto intorno è sterpi, ma sotto è vita. Oppure pensate ad un telo bagnato con una pietra al centro: asciutto tutto intorno, tranne sotto alla pietra. Eppure una filosofia affascinante vi dimora all’origine.
Il botanico Francesco Minonne, che accompagna con la sua supervisione l’evoluzione dei lavori, dichiara di non avere mai assistito, ad una riqualificazione agricola capace come questa di ridare dignità alla terra, all’acqua e soprattutto alla pianta.
Essa infatti, nel momento in cui viene messa a dimora nel proprio habitat all’ombra di queste vestigia megalitiche, non viene piegata alle volontà della chimica (anche solo quella dell’acqua irrigua) ma anzi riconquista autonomia nel gestire l’umidità per la propria crescita.
La spendibilità dei frutti che verranno da quelle piantine è simbolica, ovviamente, ma essi saranno la prova provata che è possibile sfruttare la risorsa idrica in un modo diverso.
Un esempio che però va ben oltre se stesso giacché combatte contestualmente non solo l’uso dell’irrigazione a pioggia (che determina il sollevamento dei pollini e la loro improduttiva dispersione) ma anche un altro scempio ecologico: l’importazione di specie non autoctone. Introdurre colture altre in una terra che già faticava a gestire le proprie, ha qui moltiplicato il rischio di desertificazione acuendo il processo di salinizzazione del suolo.
L’acqua dolce, che è più leggera e resta in superficie, viene infatti consumata per prima ed impiegata in quantità per irrigare le colture importate (ma anche per alimentare piscine e per inverdire prati all’inglese), amplificando lo svuotamento di quella prima interfaccia e con ciò favorendo la risalita dell’acqua salata che avvelena il terreno.
L’uomo mediterraneo di una remota epoca della Storia, quasi mitica per quanto lontana, ebbe modo di riconoscere nella pietra un alleato per resistere al microclima dell’area che aveva deciso di abitare. E verosimilmente, anche se non ne esistono vestigia archeologiche, l’unico che ne parla è Pietro Laureano, questa antica tecnologia di pietra fu praticata in quella striscia di terra che è Israele. Tracce su scala ridotta, dell’altezza di 40 centimetri, sono presenti alle Canarie, ma nulla di paragonabile in estensione. Ecco dunque che i Tu’rat sono da considerarsi un unicum.
Uno scenario delle Mille e una notte che dice tutta la ricchezza, assai poco conosciuta, di un Salento di mezzo fra i due mondi, territorio di transito delle culture mediorientali.