In una tiepida serata di fine aprile, seduti sulla piccola terrazza di una taverna del caratteristico quartiere Plaka di Atene, sorseggiamo birra Mithos con altri compagni di viaggio. Siamo al termine del nostro breve ma intenso giro turistico nella Grecia classica: Atene, Epidauro, Micene, Olimpia, Delfi e infine le Meteore. Parliamo con un sottofondo di musiche greche e di tanto in tanto volgiamo lo sguardo verso la soprastante cima dell’Acropoli che svetta illuminata nel buio della notte.
di Federico Solfaroli Camillocci
Ad Atene – scrive Cesare Brandi nel suo Viaggio nella Grecia antica – l’Acropoli sbuca fuori ovunque, sui tetti, sulle piazze. “È questa continua presenza dell’Acropoli, che fa Atene. Ricompare l’Acropoli ed è sempre un’apparizione”.
Ai piedi dell’Acropoli si stende larghissima Atene, con oltre 4 milioni di abitanti. L’abbiamo abbracciata tutta con lo sguardo in fase di atterraggio del volo da Roma: un’enorme distesa color latte, bucata da poche macchie di vegetazione e sporadiche colline. Il mattino seguente, di buon’ora, saliamo sul sentiero a zig zag fin sotto i Propilei, l’elegante porta d’ingresso alla rocca, ammirando dall’alto la magnifica struttura dell’Odeon di Erode Attico. Gran parte degli antichi monumenti è scomparsa: ovunque, nella Grecia Classica, occorre uno sforzo di fantasia per immaginare lo splendore di un tempo.
Il profilo delle Cariatidi dell’Eretteo richiama la nostra attenzione, più dell’imponente scheletro del Partenone. Di quest’ultimo non restano che le colonne esterne e pochi fregi nella parte posteriore, quanto basta tuttavia per immaginarne l’antica imponenza e il valore architettonico. La luce è accecante, un caldo secco ci avvolge. I turisti si spostano, come formichine, camminando sulla roccia da un lato all’alto dell’Acropoli.
“In Grecia ti convinci che il genio, non la mediocrità, è la norma.
Nessun paese ha prodotto, in proporzione al numero, tanti geni quanti la Grecia.”
(H. Miller)
Sporgendoci dal bordo della rocca scorgiamo tutti i luoghi dell’antica democrazia ateniese: la spoglia collina dell’Areopago, l’altura della Pnice e più in basso la spianata dell’Agorà. Non possiamo trattenere l’emozione. Racconta Sigmund Freud che quando si trovò sull’Acropoli e abbracciò con uno sguardo il paesaggio, si chiese: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?”.
Al Museo Archeologico di Atene, “un florilegio – scrive Brandi – che da solo giustificherebbe un viaggio, anzi un pellegrinaggio”, eccoci finalmente al cospetto della maschera d’oro detta di Agamennone, delle mitiche tavolette della scrittura lineare B, del grande vaso decorato con figure geometriche alternate a scene funebri, di tante statue stilizzate dell’epoca arcaica e quelle più realistiche dei periodi successivi: nudi bellissimi, più divini che umani.
Il nuovo Museo dell’Acropoli, invece, è una struttura avveniristica di marmi, vetrate e colonne d’acciaio, che ospita i reperti dell’Acropoli e del Partenone. Un luogo dove antichità e contemporaneità si coniugano mirabilmente. Magnifica è la sala dei reperti arcaici, costellata di sculture in marmo di rara bellezza, tra sapienti fasci di luci e colonne; al ballatoio superiore sono esposte le statue originali delle Cariatidi, splendide e regali: un impatto che emoziona. L’ultimo piano, infine, ospita una ricostruzione del Partenone con i fregi che restano dalle requisizioni inglesi del passato.
Ci rendiamo conto che il senso profondo del nostro viaggio è quello di trovarci finalmente, fisicamente, nei luoghi di cui abbiamo sempre parlato, studiato, tradotto, vagheggiato sin dalla più tenera età. Dopo aver calpestato la roccia dell’Acropoli e degli altri siti archeologici, le storie e i miti greci brillano di una luce più viva.
Epidauro è il sito che più mi ha impressionato. Entrando nel teatro, ampio, armonioso, magnificamente conservato, adagiato su un pendio naturale in vista dei ruvidi monti del Peloponneso, ci si sente sopraffatti da tanta perfezione. Un luogo dove sopravvive ancora il senso di sacralità, un tempo legato alla venerazione del dio risanatore Esculapio. Di fronte alla stupefacente bellezza di quest’opera, anche la constatazione della notoria perfezione acustica del teatro è un’esperienza che passa in secondo piano. “A Epidauro – ricorda Henry Miller ne Il colosso di Marussi – nella quiete, nella grande pace che scese su di me, udii battere il grande cuore del mondo.”
La stessa luce in cui nuota Epidauro campeggia nella vicina Micene, dove poco resta dell’antica città, mimetizzata, fatta di roccia: tracce delle mura imponenti, la celebre Porta dei leoni, i basamenti di tombe e palazzi. “Dio mio, che sforzo di fantasia richiede sempre questa Grecia!” confessa Cesare Brandi tra le rovine di Micene. La città regale di Menelao e Agamennone è incastonata su una collinetta, “una protuberanza che è come la gobba di un cammello, un unico sasso, fra altri sassi, ma allo sbocco delle valli”. Qui – annota Brandi – sotto la Porta dei Leoni, si vive una liberazione: aver visto finalmente un simbolo della nostra cultura e della nostra formazione. I nomi di Atreo, Clitennestra, Oreste, Ifigenia riecheggiano, prendono vita, si fanno persone reali come noi, li senti camminare al tuo fianco, sui tuoi stessi passi.
Micene domina una vallata fertilissima che giunge fino al mare. Attraversandola veniamo investiti dal profumo inebriante degli agrumeti: una fragranza potente, per me senza precedenti, che resterà uno dei ricordi più piacevoli del viaggio.
Da Micene percorriamo il cuore verde del Peloponneso fino a giungere, dopo tre ore di viaggio, nel territorio ricco di acque ove sorge Olimpia. Olimpia – osserva Cesare Brandi – “non è una città ma un luogo. E mai luogo fu più luogo: inequivocabile, designato. Dove non c’è nulla di spettacolare, ma qualcosa che sembra doversi continuamente tradurre in musica.” Qui, in un pianoro posto tra due fiumi, l’Alfeo e il Cladeo, i greci scelsero di edificare un santuario, lo stadio e le altre strutture che accoglievano i mitici giochi, per i quali atleti e spettatori giungevano da tutto il mondo greco. Oggi nell’Altis, il recinto sacro ove sorgevano i templi di Zeus ed Era, non restano che poche colonne e i basamenti degli edifici, circondati da erba e pini, querce e olivi selvatici. Questi ultimi fornivano le fronde utilizzate per confezionare le corone dei vincitori dei giochi olimpici. Camminiamo lentamente, con rispetto, tra i resti della palestra e degli altri edifici, avvinti da un’atmosfera colma di sacralità e di memoria storica, fino a raggiungere lo stadio, ove accediamo alla pista passando sotto l’arco di ingresso come gli eroici atleti di un tempo. Nel bellissimo museo di Olimpia indugiamo a lungo attorno alla celebre statua di Ermes con Dioniso bambino, attribuita a Prassitele, affascinati dalla bellezza della testa poggiata su un corpo imponente ma che nei particolari rivela linee quasi femminee. Quindi entriamo nel salone che ospita i frontoni del tempio di Zeus e vorremmo restare a lungo a osservare ogni particolare. In una teca è esposta la piccola anfora su cui è scritto “Appartengo a Fidia”, la prova che l’artista lavorò a Olimpia. Un oggetto minuscolo, una oinochòe, un vaso da vino della capacità di un nostro quartino, sufficiente a trasformare un personaggio finora immaginario in un uomo realmente esistito.
Lasciato il Peloponneso, tramite l’avveniristico ponte bianco sullo stretto di Patrasso ci portiamo sulla sponda della Locride fino a Itea. Da qui il mattino successivo percorriamo l’ampia valle coperta da un mare di olivi e poi i tornanti che conducono a Delfi. Viaggiamo tra olivi, querce, alberi di Giuda, ginestre in fiore, in un paesaggio che ricorda pezzi della Toscana, dell’Abruzzo e di terre più a sud.
Si sale fino a Delfi ed è un approdo. Ci si sente come quegli uomini, illustri o non, che giungevano da ogni luogo per interrogare l’oracolo. Delfi è una parete selvaggia stretta tra il mare e le cime del monte Parnaso. Si percorre il sentiero tortuoso in salita ai cui lati sorgono i resti di templi e tesori fino a raggiungere lo stadio posto sotto il crinale del monte. A ogni passo una traccia degli antichi edifici. Quindi, a ritroso si torna verso il basso, assaporando pienamente la sacralità del luogo. Del tempio dove la Pizia emetteva i suoi oracoli sotto l’effetto delle esalazioni del chasma, non restano che poche colonne, che dall’alto vediamo stagliarsi nella luce azzurrognola e vaporosa del mattino. Nel piccolo ma prezioso museo – che più di ogni altro, secondo Cesare Brandi, dà lo spettacoloso punteggio della scultura arcaica greca – ci attendono, tra i tanti tesori superstiti, due statue di impressionante bellezza: l’auriga di bronzo e la statua di Antinoo. L’auriga dagli “impensati occhi d’agata”, impressionante per la perfezione delle pieghe della tunica, fu un donativo del tiranno di Gela in Sicilia. La stupefacente statua di Antinoo, “l’ultimo degli dei”, il ragazzo amato dall’imperatore Adriano, è la rappresentazione più pura della bellezza maschile. La potenza espressiva di queste due statue oscura l’importanza degli altri reperti, dall’omphalòs, la pietra che simboleggia l’ombelico del mondo, al fregio del tesoro dei Sifni.
L’ultima tappa del nostro viaggio è a settentrione, in Tessaglia per ammirare lo scenario emozionante delle Meteore, i monasteri medievali edificati su cime rocciose isolate, sospese nell’aria, come dice il loro nome. È come fare un balzo di secoli nella storia, ma vale la pena giungere fin quassù per immergersi tra queste vallette verdi dove batte il cuore della spiritualità cristiana.
Sul volo di ritorno verso l’Italia ricomponiamo col pensiero i tanti tasselli che compongono il variopinto mosaico del nostro viaggio in Grecia. Sono stati giorni brevi e intensi, ma sufficienti a farci sentire ancora di più figli di questa terra.