Un progetto pensato nel 2018, attivato nel 2019 e che, come molte altre attività, ha avuto una brusca frenata nell’anno della pandemia.
Ma al FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano non si sono scoraggiati e con forza e tenacia hanno continuato a portare avanti Progetto Alpe – L’Italia sopra i 600 metri, un’iniziativa innovativa all’interno della Fondazione che da più di quarantacinque anni è un faro nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico italiano.

«La volontà – racconta Costanza Pratesi, Responsabile Ufficio Paesaggio e Patrimonio del FAI – era quella di creare un progetto a carattere nazionale che avesse un elemento in grado di unire l’intero Paese.
Ecco quindi che la montagna è apparsa fin da subito il comune denominatore per tutte le regioni italiane».

Una montagna diversa a seconda che si tratti di luoghi sovrasfruttati a livello turistico o dimenticati, ma che spesso soffre di mali comuni quali la crisi dell’economia tipica delle terre alte a dispetto di una prevalente economia legata al turismo, talvolta molto invasiva.
Ma anche l’abbandono dei pascoli e delle tradizioni legate alla pastorizia; l’emarginazione di borghi e paesi che si vanno spopolando; il rischio del collasso totale di un’architettura di montagna; l’inevitabile dissesto idrogeologico causato dall’abbandono del territorio da parte di chi lo manteneva – con le drammatiche conseguenze che in anni recenti hanno riempito le pagine di cronaca, come frane, alluvioni, incendi, crolli – che sta condannando le comunità montane a un destino di marginalità, al ruolo di “nuove periferie”.

Perché è un progetto innovativo

L’innovazione è insita nel nome stesso: Progetto Alpe, che sta a indicare il mondo dell’alpeggio cioè il luogo della vita, delle attività e delle persone. Non più un bene o un monumento com’è nel Dna del FAI, ma un progetto che tuteli le attività e il futuro delle comunità che abitano queste aree.

Un esempio è il caso delle Alpi Pedroria e Madrera, 193 ettari di terreno posti sul versante settentrionale delle Alpi Orobie, a Talamona in provincia di Sondrio.

Qui il progetto del FAI è volto a rafforzare, con il coinvolgimento diretto della comunità locale e in rete con il Comune di Talamona e la Fondazione Fojanini, la resilienza del sistema territoriale allo scopo di contribuire a ridurre la perdita di biodiversità causata dall’abbandono dei pascoli, favorire il ripopolamento di specie animali autoctone in via di estinzione, combattere l’eventualità di slavine e dissesti, valorizzare il patrimonio culturale identitario connesso alle produzioni tipiche (soprattutto casearie, ma non solo) e sensibilizzare la popolazione sulle tradizioni pastorali dell’agricoltura di montagna.

In quest’area si punta, fra le altre cose, a recuperare due calècc, strutture quadrangolari di 4 metri per 4 dove, secondo la tradizione, si cuoceva il latte per la produzione del Bitto, a ridosso dalla mungitura. Riuscire a recuperare queste strutture rappresenterebbe un elemento fondamentale per mantenere in vita il patrimonio culturale immateriale che caratterizza questi luoghi.

La sfida per il FAI è quindi quella di far rivivere luoghi e comunità, rivalorizzando antichi saperi e produzioni tradizionali in un’ottica di sostenibilità.  E, nella visione della sostenibilità, rientra anche il bisogno di fare rete tra i diversi luoghi accomunati dallo stesso elemento “geografico” e i beni già di proprietà del FAI, come ad esempio le Baite Daverio in Val d’Otro in Valsesia, testimonianza diretta della cultura Walser.

Sfida accettata e che ha già dato i primi frutti. «Si sono fin da subito create sinergie fra le comunità montane che sanno perfettamente che insieme si è più forti e si può ottenere molto di più» continua Costanza Pratesi. «E si è al contempo creata anche una forte rete di accademici ed esperti che si sono resi disponibili all’interno di un comitato scientifico spontaneo e che mettono a disposizione le loro conoscenze per trovare soluzioni e per creare coscienza del luogo negli abitanti stessi».

«Il FAI sostiene questi luoghi – conclude Costanza – fungendo da motore per innescare circuiti virtuosi e da piattaforma che permette a questi luoghi di essere riscoperti e di tornare ad avere una comunità prospera, in grado di vivere grazie alle attività tipiche dell’area, scongiurandone così l’abbandono o peggio ancora la snaturalizzazione».

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