Circola molta disinformazione sull’impatto ambientale degli allevamenti, spesso indicati come la causa principale dei cambiamenti climatici. Quando la questione viene approfondita dal punto di vista scientifico, le cose stanno molto diversamente, e si scopre che gli allevamenti non sono tra i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra.

Lo spiega in modo chiaro il Professor Giuseppe Pulina, Docente di Zootecnica Speciale presso l’Università di Sassari e fra gli scienziati più autorevoli del mondo.

«Secondo la FAO, il contributo di tutta l’agricoltura alle emissioni climalteranti a livello globale arriva all’11%» puntualizza Pulina. «Calcolando anche l’uso del suolo, soprattutto deforestazione, oppure utilizzo per colture e di pascoli, che sequestrano CO2, arriviamo a poco meno del 20% delle emissioni globali. Per cui la storia che l’agricoltura impatta per il 35% non è vera».

Pulina ribadisce che l’agricoltura si è mostrata un sistema doppiamente virtuoso, fornendo cibo a miliardi di persone in più dal 2000 a oggi, ma impattando di meno. Ed è questa efficienza la chiave della sostenibilità. «Tutto quello che va dal 20 al 35% non riguarda l’agricoltura, ma riguarda le catene alimentari, l’approvvigionamento, la cottura dei cibi etc.…» fa presente il professore. «L’agricoltura impatta per l’11% e ha ridotto in maniera rilevante il proprio impatto. Eravamo oltre il 20% nel 2000 e siamo scesi sotto il 20%».

Allevamenti e emissioni

Le emissioni della zootecnia dovute alle fermentazioni ruminali dei bovini e alla gestione dei reflui, spiega l’esperto, sono pari ai due terzi di tutte le emissioni dell’agricoltura, l’8% delle emissioni globali. Dalla COP26 in poi ci si è concentrati sul metano, perché questo gas ha un potere di riscaldamento globale molto più elevato della CO2, ma ha il vantaggio che dura in atmosfera molto meno. Infatti, dopo meno di dieci anni si riduce della metà e dopo 50 anni scompare completamente dall’atmosfera, mentre la CO2 può restare secoli o addirittura oltre 1000 anni. «Eliminare il metano appare la via più rapida per contenere il riscaldamento globale, e togliere i ruminanti sembra più facile che eliminare le perdite di metano dai gasdotti, dai pozzi di petrolio, dalle miniere di carbone, o del controllare gli scarti alimentari vegetali delle megalopoli, che contribuiscono enormemente alle emissioni di metano» chiosa Pulina.

Una dieta equilibrata per l’uomo e l’ambiente

Secondo Pulina, inoltre, convertirsi ad una dieta esclusivamente vegetale non è la soluzione per salvare il pianeta: «Quando si parla di impatti ambientali, l’unità di riferimento è il kg di prodotto. Negli studi di comparazione fra diete, spesso il valore nutrizionale degli alimenti non viene considerato. 1 Kg di carne non è uguale a 1 Kg di insalata o di ciliegie. Non sono la stessa cosa. – sottolinea lo scienziato – Infatti, se andiamo a vedere le quantità di alimento che sono necessarie per soddisfare il fabbisogno di amminoacidi essenziali, i vegetali perdono di competitività rispetto ai prodotti di origine animale. Ci vogliono molti meno prodotti di origine animale per soddisfare i nostri fabbisogni rispetto ai vegetali».

In effetti, negli studi in cui gli impatti ambientali non si calcolano sul kg di prodotto ma sui nutrienti essenziali contenuti negli alimenti, oppure sulla densità energetica, gli alimenti di origine animale non risultano più come i più impattanti. Secondo Pulina, bisognerebbe quindi valutare i valori nutrizionali e considerare che quando si passa da diete onnivore a diete vegetali aumentano anche gli scarti da gestire.

«Bisogna tenere conto che gli animali zootecnici sono dei riciclatori formidabili di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo perso o sprecato ogni anno, perché lo trasformano in proteine di origine animale, quindi da problema a risorsa».

«Se riduco i prodotti animali a favore dei vegetali, gli impatti in energia non cambiano, anzi i consumi di acqua sono superiori e anche le emissioni di gas serra. Portarsi su diete esclusivamente vegetariane senza controllo ha anche una sostenibilità sociale molto bassa» puntualizza Pulina anche ricordando uno studio americano in cui si confrontano diete con tre scenari diversi, ed emerge che la miglior situazione si ha continuando a mangiare tutto, ma in minor quantità. «Nei Paesi in cui, come vorrebbe la dieta EAT-Lancet, ci si limita a 14 g di carne al giorno, i bambini dai 0 ai 59 mesi di età sono in ritardo di accrescimento sia fisico che psicosomatico. Come in Madagascar, dove la denutrizione e la mancanza di prodotti animali causano ritardi nella crescita».

Produrre di più usando di meno

Se vogliamo affrontare le sfide ambientali e sociali che ci attendono nei prossimi anni, insomma, meglio lasciare da parte gli interessati ideologismi tanto in voga al momento. «Serve produrre di più usando di meno», conclude il professore: «Per farlo, bisogna ridurre l’uso dei fertilizzanti e salvare i principi nutritivi che entrano nel ciclo dell’agricoltura». In due parole: agricoltura rigenerativa. «I princìpi di questo tipo di pratica agricola sono cinque: tenere il suolo coperto, mantenere in vita le radici, minimizzare il disturbo del suolo, integrare il bestiame e massimizzare la diversità delle colture».

Come si può notare, la presenza del bestiame è una parte fondamentale per riutilizzare tutti i nutrienti in modo rigenerativo e mantenere le radici vive che generano la vita: «Nel ciclo della fattoria non si butta via niente: gli scarti alimentari vengono dati agli animali, e il letame usato come fertilizzante (senza letame, addio colture bio). Con l’allevamento integriamo i nutrienti, non perdiamo azoto, fosforo e soprattutto carbonio». Saggezza antica, in chiave moderna.