Questi mesi verranno ricordati come la “folle corsa alle trivellazioni nel Mar Mediterraneo”. Quasi non stupisce più il passaggio delle trivelle al largo dei nostri mari.

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Trivella avvistata al largo di Ancona

Le abbiamo viste partire dal porto di La Spezia, costeggiare isole considerate santuari della biodiversità mediterranea come ad esempio Pantelleria, per percorrere i mari litorali pugliesi e raggiungere le coste abruzzesi o marchigiane. Ma perché questa corsa e soprattutto: perché tutti vogliono il petrolio del nostro Mar Mediterraneo? In fin dei conti, si tratta solo di poche gocce.
Le ragioni sono molteplici ma quella predominante è sempre la stessa: la convenienza economica. Estrarre petrolio in Italia conviene.
Storicamente l’Italia non è mai stato un paese allettante per le compagnie petrolifere. Al fine di incoraggiarle quindi, i nostri governi hanno creato un’oasi felice per le società estrattive, promettendo loro guadagni maggiori rispetto ad altri paesi.
È così che le royalties italiane (percentuali di compensazione ambientale) sono sempre state tra le più basse del Pianeta. In Norvegia quasi l’80% del ricavato dell’industria petrolifera finisce nelle casse dello stato, in Inghilterra si attesta intorno al 32% mentre in Italia parliamo di un misero 4% dei ricavi per le estrazioni in mare (ripartito tra Stato e Regioni rispettivamente al 45% e 55%) e del 10% per le estrazioni su terraferma ( 30% allo stato, 55% alle Regioni e 15% ai Comuni).
Quota che dovrebbe confluire in un fondo a disposizione delle località interessate al fine di “sopperire” allo sfruttamento del territorio e agli squilibri ambientali causati dalle attività petrolifere. Spesso però questo non accade e il fondo si perde in mille rivoli.
In Italia, inoltre, la forma giuridica della società petrolifera non è poi così importante. Sono infatti benvenute anche le semplici società a responsabilità limitata con esigui capitali sociali che, ricordiamolo, pongono limiti invalicabili alla responsabilità economica per eventuali danni arrecati. A tutto ciò poi, vanno aggiunti regimi fiscali convenienti, spese di ingresso irrisorie e facilità e rapidità nella commercializzazione della materia prima.
Se a tutto questo sommiamo anche una politica ambientale poco restrittiva il gioco è fatto. Il limite previsto per le trivellazioni nei mari italiani è di 12 miglia, stabilito dall’allora Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo. Limite che, oltre ad essere estremamente basso (si pensi che la California vieta le perforazione entro i 160 chilometri dalla costa) è anche suscettibile di deroghe. È notizia dello scorso maggio ad esempio l’autorizzazione rilasciata dal Ministero dello Sviluppo Economico alla società petrolifera Po Valley Operations per l’ampliamento di un titolo già esistente estendendo così le attività di ricerca di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia. «La riperimetrazione dell’area già concessa alla Po Valley Operations – afferma Legambiente – svela un’interpretazione abnorme dell’articolo 35 del decreto Sviluppo del 2012, promosso dall’allora Ministro allo Sviluppo Economico del Governo Monti, Corrado Passera. Quella norma prevedeva una deroga al limite delle 12 miglia, e faceva salvi i procedimenti autorizzatori e concessori in corso alla data del 29 giugno 2010».
In Italia, ricordiamocelo, esiste una deroga per tutto.
Non deve quindi sorprendere la facilità con cui nuove trivelle (come ad esempio la recente Bonaccia di fronte alle coste di Ancona) vengono posizionate a pochi chilometri da una costa la cui comunità vive di pesca e turismo.
Se in conclusione, aggiungiamo che il Governo, nell’emanazione della legge sui reati ambientali sceglie di non introdurre il divieto di utilizzo della tecnica di ispezione dei fondali marini denominata Air Gun, allora le compagnie petrolifere sarebbero disposte a far la fila pur di investire nel nostro paese. Scatenando così una vera e propria caccia all’ultima area sfruttabile ovunque essa sia: accanto a un’area marina protetta o a un parco naturale.