12 Dicembre ore 19.26. C’è l’accordo. Due testi, 31 pagine. Un successo, un fallimento. Certo il momento è storico. I giornalisti applaudono, i negoziatori piangono per la stanchezza. C’è chi si indigna e protesta. Mai prima d’ora 195 paesi si erano riuniti e trovati per trovare un accordo sul modello di sviluppo economico del pianeta per sconfiggere o almeno rallentare il cambiamento climatico. L’obbiettivo? Ridurre le emissioni “ben sotto i 2°C”, con l’obiettivo di raggiungere i 1,5°C aumentando l’ambizione nel corso degli anni.

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Se visto con gli occhi della diplomazia e della real-politik, l’Accordo di Parigi è un successo infinito. Basta pensare a quanto polarizzato e complesso sia il mondo geopolitico nel 2015. «Immaginate mettere d’accordo 195 persone, quando si fa fatica a scegliere dove mangiare con la propria compagna», ha riassunto con una battuta azzeccata il Ministro dell’Ambiente. E che rilancia: «Qua si inaugura un nuovo percorso di sviluppo globale, basato sulla climate economy». 100 miliardi l’anno saranno movimentati per i paesi in via di sviluppo, con il dovere di aumentare i finanziamenti.

L’aria a Le Bourget quando annunciano l’Accordo è elettrica, l’esatto opposto della cupa atmosfera di Copenaghen. L’obbiettivo è in linea con quello suggerito da una parte degli scienziati. «Se questo accordo sarà implementato porterà le emissioni di gas serra vicino allo zedo in qualche decina d’anni», ha spiegato John Schellnhuber, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research. «Un testo in linea con l’evidenza scientifica, per fermare gli effetti del cambiamento climatico». Per il noto climatologo americano James Hansen l’accordo invece, manca dell’obiettivo di de-carbonizzazione, dove di richiede la graduale dismissione delle fonti fossili «è una frode, un falso, promesse, niente azioni»

Certo finalmente oggi, a livello globale, esiste un percorso di riduzione delle emissioni con una revisione degli impegni ogni 5 anni. «È un accordo bilanciato e positivo, che giunge dopo anni di negoziati. La strada che abbiamo davanti è segnata: verso emissioni nette zero. E’ il segnale che la trasformazione energetica è ormai in atto e inarrestabile. Toccherà a noi controllare e stimolare gli Stati affinché attuino le loro promesse nei tempi previsti e aumentino i loro impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra nei prossimi anni” ha dichiarato Veronica Caciagli, presidente di Italian Climate Network.

Per la delegazione italiana che ha lavorato alacremente nel dietro le quinte per l’obbiettivo dei 1,5° il documento di oggi è un successo. «Avremmo voluto obbiettivi più vincolanti dichiara all’autore, il ministro Galletti. «Ma l’accordo è comunque un successo». E visto che gli obiettivi volontari contengono un meccanismo dove ad ogni revisione si deve aumentare l’ambizione, rilancia subito: «l’Europa può andare oltre alla riduzione delle emissioni del 40%, con 27% di energia da fonti rinnovabili e 27% di risparmio energetico nel mix».

Importanti riferimenti ai diritti umani, alla giustizia climatica, ai diritti indigeni sono rimasti nel testo, che hanno lasciato di sorpresa molti attivisti.

Dal punto di vista giuridico l’accordo (che sarà siglato ad Aprile 2016 a New York) crea definitivamente un quadro legalmente vincolante dove sono tutti dentro, sulla stessa barca. Aprendo ad una conferenza permanete delle parti che lavorerà alacremente per incrementare il livello di ambizione per fermare il climate change.

Lo sguardo dell’ambizione reale e della Terra

Esiste un’altra visione, alternativa al successo sancito alle 19.26 del 12 dicembre da Laurence Fabius. La narrativa di chi crede bisogni porre fine al modello petrocapitalista, per un sviluppo sostenibile reale, ambizioso, che come raccontano i rappresentanti dlla nazione indigena, come capo Mowhak Kenneth Deer «sappia parlare non con la lingua degli interessi particolari, ma con quella della terra intera».

La politica a livello globale non è ne sempre democratica, né inclusiva. Il mondo è imperfetto. Non c’era bisogno della COP21 per sapere che il mondo non è ancora pronto per essere inclusivo di diritti uguali per tutti, per rispettare i le popolazioni indigene, l’autodeterminazione dei popoli, o asserire l’uguaglianza di genere e il ruolo fondamentale giocato da queste nella lotta al cambiamento climatico. Il diritto della Terra è un concetto che deve ancora venire.

Un percorso infinto, quello dell’accordo di parigi, che durerà 85 anni, irto di ostacoli, ma non necessariamente condannato all’insuccesso. Poiché dove falliranno gli stati, o gli accordi, è compito di tutti i cittadini globali di buona volontà agire per fare pressione ad ogni livello. E’ compito delle imprese, degli amministratori, dell’ambientalismo e dei giornalisti. Il framework è formato, ed include il ruolo di questi attori dal basso, contropoteri atti a richiedere un mondo decarbonizzato e sostenibile.«Ora inizia la sfida. L’obiettivo è 1,5°C? Useremo tutte le forze affinché sia rispettato!», esclama Bill mcKibben, leader ambientalista e giornalista americano.

Certo ci sono gli ostili a tutti i nostri. Ovviamente ostile Naomi Klein, autrice di “This changes everything”, che afferma: nel testo non c’è un solo riferimento alla parola petrolio o “combustibili fossili”. E per il rappresentante delle comunità indigene, Alberto Saldamando, «l’accordo di Parigi è un accordo commerciale, niente di più Promette di privatizzare, rendere merci e vendere aree forestali come carbon offsets in schemi fraudolenti come REDD+». Un meccanismo per riciclare i soldi legai all’inquinamento carbonico, fatto sulle spalle del Sud del Mondo. Nulla cambia da Kyoto, purtroppo: finanza climatica e nemmeno vincoli rigidi. Secondo James Hansen sarebbe servita una tassa globale sui combustibili fossili. Un’ottima idea che questo giornale supporta da sempre. La carbon finance e la carbon neutrality è una vittoria dei petrolieri, che per decenni ancora potranno continuare ad inquinare, con una lunghissima transizione, da fare attraverso gas metano, Carbon Capture e Storage e persino geo ingegneria.

In ogni caso il 12 dicembre 2015 rimarrà uno dei giorni segnati in neretto sui libri di storia.