Sono la chiave per la lotta per il clima. E un articolo del testo di Parigi le difende. A patto che possano essere usate per raggiungere la carbon-neutrality con meccanismi finanziati.
Non si salva il clima senza le foreste tropicali. Il messaggio sulla tutela dei biomi forestali come arma contro il cambiamento climatico è risuonato tra le mura del centro convegni di Le Bourget dove si tiena la COP21. «E’ molto semplice: senza foreste non c’è piano B per il Pianeta», ha dichiarato il principe Carlo d’Inghilterra, intervenuto alla conferenza parigina.
Ben 500 milioni di foreste primarie sono andati persi dal 1950 ad oggi. Una superficie superiore a quella dell’India. Una deforestazione che pesa per il 12 per cento delle emissioni di gas serra globali. Non solo: ora si teme che stiano perdendo la capacità di assorbire CO2 a causa dell’aumento delle temperatura tropicali notturne, che ne indeboliscono la forza fotosintetica, come descritto da uno studio pubblicato in questi giorni dall’Accademia delle Scienze Americana.
Dunque la difesa delle selve risulta strategica per arrestare il riscaldamento globale e i suoi effetti cascata. «Una sfida importante per il pianeta, dato che aiutano ad assorbire il 25% delle emissioni di origine antropica», racconta Riccardo Valentini, membro dell’IPCC, il super-panel di scienziati per il clima, intervistato dall’autore
Nel testo si fa riferimento ad un meccanismo per definire la riduzione di emissioni dovuta a riduzione della forestazione e della degradazione forestale. Nella lingua negoziale si chiama REDD+ . In pratica è un meccanismo globale di tutela per fermare la deforestazione
Ma se sulla carta sembra un successo di facile portata, non mancano gli angoli bui. «Dipende tutto da come REDD+ verrà implementato», spiega Valentini. «C’è chi lo vuole come un indirizzo generale nazionale e chi vuole che sia un meccanismo funzionante, con regole di mercato, con la possibilità di acquistare e vendere crediti di carbonio. Però tra un approccio di mercato, fatto di singoli progetti, e un approccio nazionale, credo sia preferibile un approccio nazionale. Se proteggo solo una foresta, rischio che intorno tutto il resto venga distrutto o che si dia adito a sistemi di contabilizzazione distorta. Interessa invece defire un target nazionale per tutelare tutte le foreste.
Come funzionano questi progetti REDD+ “di mercato”? Oggi spesso si possono compensare le proprie emissioni – ad esempio dei voli in aereo – acquistando crediti carbonio. Questi vengono prodotti grazie a progetti come quelli che REDD+ intende creare. Si prende una foresta, si calcola quanto carbonio sia sequestrato e per almeno una decina di anni si preservano gli alberi e si vendono i certificati. Gli alberi assolvono così i nostri peccati di inquinatori.
Attualmente un albero tropicale “vale” circa venti centesimi dollaro sul mercato internazionale delle emissioni, al netto dei costi, dato un prezzo di mercato di 2 dollari per tonnellata della CO2. Chi ci guadagna? Principalmente compagnie private, spesso straniere, con competenze specializzate nel mercato REDD+. Quasi mai sono comunità indigene o comunità locali. C’è di peggio: negli anni passati sono occorsi numerosi esempi di sciacallaggio da compagnie straniere che hanno comprato pezzi di foresta dalle popolazioni per pochi spiccioli.
«I nativi nordamericani dicono che non si può trasformare una foresta in un bene di commercio», spiega Francesco Martone, analista di Forest People’s Programme. Ma a Parigi numerosi governi guardano con interesse al meccanismo finanziario del REDD+. Come i Norvegesi che hanno investito svariati miliardi di dollari per poter compensare le proprie attività estrattive petrolifere. O gli Indonesiani, per garantire lo sfruttamento della palma da olio.
Oggi ci sono circa 330 progetti REDD+, anche se la maggior parte sono nella fase start-up, dato che solo l’inclusione in un accordo internazionale come quello di Parigi potrebbe far crescere in maniera scalare. Non tutto però è da buttare. Anche secondo i critici, la fase uno dei progetti REDD+ ha degli elementi positivi. «Serve per costruire regolamentazioni, meccanismi di verifica, analisi degli inventari forestali», continua Martone. «Il problema è la fase di puro mercato».
Dunque da sabato semaforo verde a scala globale per REDD+. Vista l’assenza del riferimento alla decarbonizzazione (riduzione emissioni tramite phase-out dei combustibili fossili) è facile intuire che i progetti REDD+ saranno tra i principali destinatari dei soldi del Green Climate Fund, il fondo per il clima che sborserà 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020. Ma l’efficacia non è data. Per far funzionare questi progetti «serve un flusso costante di soldi, altrimenti dopo una decina d’anni, i progetti possono essere annullati e la Co2 sequestrata dagli alberi persa, in caso di degrado o deforestazione», spiega Riccardo Rossella. Insomma se il mercato va male nessuno ha più interesse a preservare le foreste. E quindi niente contenimento delle emissioni.
Come fare dunque? il potenziale dei progetti di deforestazione, se correttamente implementati, è grande. Secondo uno studio di WWF International e IUCN, l’azione di progetti di deforestazione annunciati da 12 paesi (si veda infografica) potrebbero ridurre le emissioni di 4,28 giga tonnellate di CO2. Progetti come AFR100, un progetto per riforestare 100milioni di ettari entro il 2030, che punta a creare aree verdi che fungano come sistemi di stoccaggio per la CO2. E che, allo stesso tempo, offre supporto attraverso agricoltura forestale alle famiglie più povere. Si deve orientare per pratiche realmente sostenibili, dove non vengono lesi i diritti indigeni e seguite le linee guida ONU e i consigli delle ONG. Altrimenti la finanza climatica creativa ci lascerà in mano solo un pugno di foglie secche.